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Quaresima

Quaresima
 Dopo aver dato fuoco al fantoccio “Rocche”, simbolo del carnevale dei baresi e aver fatto bisboccia fino a tardi, si chiude un periodo di gioco, di scherzi, di gioia con il martedì grasso e inizia, con il mercoledì delle ceneri un periodo di riflessione, meditazione, preghiera, digiuno, un periodo di silenzio: la Quaresima. Sì, proprio così, un periodo di quaranta giorni di silenzio. Scusate, oggi non è più vero questo, non c’è molta differenza tra i giorni di carnevale e i giorni di Quaresima. Le televisioni e le radio non cambiano minimamente i loro palinsesti e tutto sembra normale e “ordinario”. Una volta, invece non era così, si avvertiva di essere entrati nel periodo forte dell’anno liturgico e anche i non credenti (pochi per la verità) avvertivano nettamente un cambiamento nei modi e negli usi di vita quotidiana. Infatti, entrati in quaresima, venivano evitati tutti i rumori. Agli animali da pascolo e ai cavalli venivano tolti i campanacci, i batacchi delle campane delle chiese venivano avvolti in stracci, perché nemmeno la forza del vento doveva far sentire il loro suono. Non venivano organizzate feste comunitarie e di famiglia, in quei giorni nemmeno ci si sposava. Anche la gastronomia subiva una metamorfosi, non si mangiava più di grasso, venivano eliminati del tutto i dolci. Si usava mangiare poco e molto semplice: pasta condita con olio e formaggio, legumi, derivati di latticini, lamponi lessi conditi con olio sale e pepe accompagnati da qualche pomodoro rosso al filo, molte verdure. Faceva eccezione solo il giorno di San Giuseppe, dove la tradizione vuole che le massaie si adoperassero per la realizzazione delle zeppole fritte guarnite con crema e amarena. In molte famiglie, specialmente quando si avvicinava la settimana santa, venivano organizzati incontri di preghiera. Gli uomini evitavano di incontrarsi per giocare a carte. I bimbi venivano redarguiti a non giocare in maniera chiassosa. Tutto assumeva un’aria dismessa. La domenica delle Palme, invece era un giorno di festa, ognuno cercava di procurarsi una palma, erano veramente pochi quelli che le compravano. I più, invece, le palme se le procuravano da soli. In verità erano i ragazzi che, in barba alle disposizioni comunali, asportavano le lunghe e large foglie dagli alberi di palme, poi le chiudevano in cantine buie per far si chè diventassero di colore giallo. Da queste foglie venivano realizzate i simboli che poi, benedetti, erano donati ai parenti e amici. La palma, a Bari in particolare, assumeva un significato di pace. In quella domenica, infatti, chi aveva litigato o aveva serbato rancore verso un famigliare o amico, procuratasi una palma, la donava alla persona offesa. Questi non poteva rifiutare o sottrarsi al gesto di pace e così ogni litigio veniva rotto. I fidanzati portavano alla propria innamorata la palma adornata con nastri colorati e fiori. La suocera del ragazzo, provvedeva, la domenica di Pasqua a mandare al futuro genero un dolce particolare: “u pegherìdde”. Un dolce, appunto di zucchero e marzapane raffigurante una pecora inginocchiata.
Tutti questi simboli di pace erano di augurio e buon auspicio per la nuova coppia e la loro vita coniugale serena e cristiana. Nella settimana santa il popolo praticava con più devozione tutte le pie pratiche, l’atmosfera di riflessione e di attesa diventava più forte. Le radio diffondevano solo musica classica e le televisioni trasmettevano film e documentari che avessero a che fare con temi religiosi o con la “passione di Cristo”. Il tutto aveva compimento a mezzogiorno del sabato santo, allorquando, con lo scoppio di alcune bombe a salve si descretava la fine del periodo di quaresima. Allora agli animali venivano attaccati i campanacci, i tram riprendevano a suonare, le sirene degli opifici fischiavano a lungo, si lasciavano volare le colombe e gli uccelli tenuti sino ad allora nelle gabbie. Tutta la città respirava un’aria di festa. Intanto le donne mostravano i dolci di Pasqua, in particolare le scarcelle. Queste che portavano sulla pasta uova sode, tenute salde da strisce di pasta, erano più apprezzate per quante più uova contenessero. Le fidanzate in particolare, dal numero delle uova, capivano quanto era grande l’amore del proprio fidanzato e la mamma esprimendo la sua soddisfazione alle comari, soleva dire: “ng’ha pertate la scarcèdde a quatte ove” (le ha portato una scarcella a quattro uova).
                                                                                              Emanuele Battista
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