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Un sacco di patate

Un sacco di patate

 

Era il 2 Luglio del 1943, il compleanno di mio padre, compiva 33 anni. Era sera, sul nostro paese imperversava un fortissimo temporale estivo. I fulmini illuminavano con flah terrificanti color argento la nostra unica stanza e i roboanti tuoni facevano tremare le mura di casa. Papà ci convocò tutti, doveva parlarci. Era successo solo un’altra volta, quando ci comunicò la morte di sua madre, la nostra adorata nonna Isa; ricordo che mio padre in quell’occasione era molto triste e i suoi occhi lucidi. Questa volta appariva sereno, quasi felice, stringeva tra le sue mani quelle di mamma che, invece, aveva la testa china per nascondere le sue lacrime «Cari figli miei tra poco devo partire, mi hanno arruolato nell’Esercito Italiano. Con me partono tanti amici del paese, siamo una bella comitiva. Voi non state in pensiero per me, dove andrò non c’è pericolo, diciamo che vado in villeggiatura. Presto vi farò avere mie notizie» Io avevo 10 anni ed ero il maggiore di cinque figli. Il mattino dopo, alle prime luci dell’alba, mia madre mi chiamò e mi disse che dovevo accompagnarla al nostro piccolo fondo di campagna. Lungo la strada mi raccontò che papà aveva nascosto in un fosso, qualche quintale di patate e alcuni sacchetti di legumi, sarebbe stata la nostra sopravvivenza e nessuno doveva conoscere questo prezioso segreto. In pratica facevo la vedetta, ossia, mentre mamma scavava per recuperare un po’ del nostro tesoro, salivo su un albero e rimanevo all’erta nel caso qualcuno si avvicinasse. Mia madre cercava di essere parsimoniosa, portavamo a casa tre o massimo quattro patate, oppure due pugni di legumi. Noi abitavamo in un locale di 20 metri quadrati senza bagno e senz’acqua corrente. Al primo piano abitava la famiglia del figlio del barone Positano. Con sua moglie vivevano anche i loro tre figli. Io, il signor Ubaldo, l’ho sempre visto vestito di nero, con stivali tirati a lucido e un copricapo chiamato fez. Tutti quelli che lo incontravano inchinavano il capo e lo salutavano secondo il saluto fascista «Buongiorno signor Ispettore Federale». Una volta, perché un signore molto anziano, seduto alla panchina, (si aiutava con il bastone per camminare), non si alzò per salutarlo, lo prese sonoramente a schiaffi e lo apostrofò «Comunista bolscevica». Un giorno spalancò la porta di casa e con fare autoritario si rivolse a mia madre «Cos’è questo profumo di ceci, da chi l’hai avuti, ci siamo messi a comprare alla borsa nera? Lo sai che è reato?» Mia madre con la voce tremante «No, no, non li ho comprati, sono una piccola rimanenza che avevo da mesi. Vi giuro non ne ho più, se volete ve li faccio assaggiare» e il signor Ubaldo ancora più velenoso «Ecco, brava, porta tutto il tegame a casa mia, altrimenti tra poco arrivano le guardie e ti faccio mettere la casa sotto sopra». Mamma, con molta solerzia, portò i nostri ceci già cotti su da “donna” Marta. Quando scese piangeva, era stata maltrattata anche da lei. La signora Marta era un tipo altezzoso e parlava con sussiego, più volte aveva intimato i miei genitori a cercare un’altra casa, perché, a suo parere, la nostra presenza, per giunta fetida e puzzolente, deturpava il decoro della loro abitazione. Quel giorno rimanemmo quasi digiuni, solo qualche pezzo di pane vecchio bagnato all’acqua e qualche goccia di olio E mamma iniziò a cucinare di notte, cercando di far evaporare i profumi della cucina prima che facesse giorno.

Ma l’8 Settembre 1943 accadde l’incredibile. Era sera quando a un certo punto sentivamo un vociare sempre più forte, erano urla di giubilo. Uscimmo dal nostro basso e vedemmo gente abbracciarsi, sventolare bandiere tricolori e poi percepimmo chiaramente: «è finita, è finita, la guerra è finita». Mia madre cercò conferme dalle persone che conosceva e poi venne verso di noi e ci abbracciò felice e così, anche noi piccoli, saltavamo e urlavamo. Il nostro primo pensiero fu a nostro padre, lontano da casa da più di due mesi, sarebbe tornato tra qualche giorno. Per strada c’era gente che offriva da mangiare e ci fu offerta qualche pastarella. C’era un’aria di festa che io, nei miei dieci anni di vita, non avevo mai vissuto. Ma durò poco, vedemmo salire al cielo colonne di fumo e persone che correvano inferocite con pale, rastrelli, zappe. Venivano verso di noi, e subito dopo buttarono giù il portone di casa Positano, salirono al primo piano: erano una trentina tra uomini, donne e giovani. Dopo qualche istante sentimmo donna Marta urlare disperatamente e i tre bimbi uscirono sul balcone in lacrime chiedendo aiuto. Io non capii nulla di ciò che stava accadendo: non era più festa? Poi vidi mia madre armarsi di un forcone e salire anche lei al primo piano. «Ma come, anche mia madre si univa a quei facinorosi, e perché?» E invece, la sentii urlare contro quelle persone che erano salite con le peggiori intenzioni. Insieme alle grida e alla grande confusione si sentivano rumori di distruzioni e poi la voce di mia madre «Basta, che colpa hanno loro, non vi vergognate di fare del male a tre creature di Dio» E per tutta risposta una voce maschile «E perché i nostri figli non sono creature di Dio per la fame che hanno provato», e ancora mia madre «Voi siete uomini e loro sono animali, per Cristo Gesù, vi prego, non fategli del male e non date fuoco alla casa». Incredibilmente tutto si placò e i ribelli scesero con il loro bottino. Ognuno portava con sé qualcosa: materassi, piatti, poltrone, una radio e tanto altro ancora. Ciò che avvenne dopo fu ancora più terribile, la signora Marta e figli non volevano rimanere in casa, erano terrorizzati. Il signor Ubaldo era riuscito a scappare con la sua famiglia paterna, non riuscendo, però, a portare via moglie e bimbi. Donna Marta non sapeva cosa fare, dove andare. Mia madre, schernendosi, offri la nostra piccola abitazione. Loro malgrado decisero di venire a casa, che più volte l’avevano definito una spelonca. Noi piccoli trovammo posto nei due letti, mentre le nostre madri si arrangiarono sulle sedie appoggiando il capo sul tavolo. Al mattino mia madre disse che non si poteva andare avanti in quella maniera e si doveva trovare un’altra soluzione. Facemmo insieme un sopralluogo al primo piano: un disastro! Non c’era più nulla dopo il saccheggio, solo i resti di mobili rotti. Mamma disse che avremmo usato le nostre cose, ma trasferendoci tutti nella loro casa più grande e confortevole, aveva anche il bagno e la vasca. La sera disse che la scorta di patate e legumi non sarebbe bastata per altre quattro persone, e quindi si doveva lavorare in campagna. Il giorno dopo, le due mamme io e Marco (primogenito dei Positano) andammo nel nostro fondo. Noi bimbi facevamo le vedette, come arma avevamo le fionde che presto imparammo ad utilizzare come strumento di caccia, arricchendo il parco menù con qualche volatile, conigli e lepri. Mamma, prima di tornare a casa, copriva il fazzoletto di terra lavorato con frasche per nascondere quel piccolo tesoretto che giorno dopo giorno cresceva e rappresentava la nostra sopravvivenza. Quando al mattino il gruppo partiva per la spedizione agricola, i nostri vicini provavano grande soddisfazione nel vedere la signora Marta, in abiti dismessi, con un paio di scarpe scalcagnate e la zappa in spalla.

Per loro era la grande rivincita e l’equiparazione di classi sociali.

Diventammo un bel gruppo affiatato e trascorremmo insieme due anni, sino ad Aprile 1945, data della vera fine della guerra. Una notte fummo svegliati bruscamente, il signor Ubaldo, in meno di cinque minuti portò con sé la sua famiglia. Lo stesso giorno tornammo nella nostra stanza, con un velo di tristezza perché eravamo diventati una famiglia e noi bimbi avevamo fraternizzato. Mio padre, da quando era partito, non l’avevamo più visto e l’ultima notizia che mia madre ebbe dai carabinieri del paese era che faceva parte della lista dei prigionieri portati dai tedeschi in località sconosciuta. Anche se la speranza era sempre viva di rivedere nostro padre, giorno dopo giorno si faceva sempre più concreta l’ipotesi che era successo il peggio. Dopo un mese, ci fu recapitata una lettera della signora Marta che ci ringraziava per quanto fatto per loro, in allegato c’era un atto notarile che ci consentiva di abitare la loro casa, senza pagare affitto, fino a quando sarebbero vissuti i miei genitori. Con gioia ci traferimmo nuovamente nella bella casa del primo piano. Dopo venti giorni, accadde ciò che non speravamo più! Io e mio fratello Nicola, nella nostra vecchia casa, adibita a deposito stavamo setacciando i semi di pomodoro che poi avremmo seminato. Sentimmo bussare e poi aprire la porta: apparve un uomo vestito con stracci, barba lunga e magrissimo. I suoi occhi erano scavati e emaciati. Io e Nicola ci guardammo chiedendoci chi fosse quest’uomo, forse era un poveraccio che cercava un pezzo di pane. Ma poi disse «Voi chi siete, che ci fate in casa nostra, mia moglie e i miei figli dove sono andati?» la voce era inconfondibile, era proprio la sua: era papà! Urla di gioia e subito chiamammo mamma, le sorelle e il più piccolo di noi. In poco tempo la nostra famiglia era unita in un lungo abbraccio, tanti baci e copiose lacrime. Aveva percorso 1800 Km con mezzi di fortuna e a piedi dopo essere stato prigioniero in un campo di concentramento. Raccontammo a papà tutto ciò che era accaduto in sua assenza e che adesso abitavamo nella casa della famiglia Positano. Di loro sapemmo solo che si erano trasferiti in una località segreta del Sud e che non sarebbero più tornati nel nostro paese. Ma con grande puntualità ci inviavano gli auguri a Natale e Pasqua. Dopo qualche settimana, quando papà recuperò le sue forze, riprendemmo a lavorare nel nostro campo. Avendo anche la casa con magazzino ci potemmo permettere un cavallo e ben presto comprammo anche i fondi limitrofi aumentando la nostra produzione e di pari passo il nostro benessere.

 

                                                                                              Emanuele Battista

 

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